native advertising

Native advertising: cos’è, come funziona ed esempi di copy

In questo articolo scoprirai:
  • Cos’è il native advertising
  • I principali formati e quando usarli
  • Native advertising vs content marketing vs display ads: cosa scegliere
  • Gli errori che fanno perdere migliaia di euro alle PMI italiane
  • Quando ha senso investire (e quando è buttare soldi)
⏱️ Tempo di lettura: 14 minuti | Basato su €1.8M di spend in campagne native

Ti è mai capitato di leggere un articolo interessante online, arrivare alla fine, e solo in quel momento accorgerti che era pubblicità?

Quella è native advertising.

E se ti sei sentito un po’ fregato, beh, è esattamente così che dovrebbe funzionare.

Il problema è che il 95% degli imprenditori italiani che “fanno native advertising” in realtà stanno buttando soldi in articoli promozionali che nessuno legge, su siti che nessuno visita, pagando cifre assurde a publisher che gonfiano le metriche come palloncini da compleanno.

Poi si lamentano che “il native non funziona”.

No. Il native funziona. Sei tu che lo stai facendo nel modo completamente sbagliato.

Secondo uno studio di Sharethrough e IPG Media del 2024, il native advertising genera il 53% in più di visualizzazioni rispetto ai banner tradizionali e un engagement rate 8.8 volte superiore. Il mercato globale vale $402 miliardi e crescerà a $650 miliardi entro il 2027.

Un dato del genere non può che far ragionare su quanto questo formato sia diventato dominante nel marketing digitale.

Eppure la maggior parte delle PMI italiane lo usa come usavano i volantini negli anni ’80: a caso, sperando che qualcosa funzioni.

Cos’è il Native Advertising

Il Native advertising è pubblicità travestita da contenuto editoriale.

Leggi un articolo su Corriere.it. Alla fine ci sono altri articoli consigliati. Uno dice “Contenuto sponsorizzato da X”. Clicchi, è un articolo. Sembra giornalismo. È pubblicità.

Quello è native advertising.

Il principio fondamentale è che la pubblicità deve adattarsi alla piattaforma dove appare, non interromperla come un pugno in faccia.

Contrario assoluto del banner lampeggiante rosso che urla “CLICCA QUI! OFFERTA IMPERDIBILE! SCONTO 70%!” che tutti ignorano da 20 anni.

Perché il native advertising funziona così bene?

Il cervello umano ha sviluppato filtri anti-pubblicità potentissimi. Si chiama “banner blindness” ovvero cecità da banner, ed è documentato da centinaia di studi.

Quando vedi qualcosa che il tuo cervello riconosce come “pubblicità”, scatta il filtro. Non ci fai nemmeno caso. Gli occhi letteralmente saltano quella zona dello schermo.

Ma quando vedi qualcosa che sembra contenuto normale, il filtro non scatta.

Inizi a guardare. Ti coinvolgi. Elabori il messaggio.

E quando ti accorgi che era pubblicità (se te ne accorgi), se il contenuto era utile o interessante, non ti dà fastidio. Se invece era promozione palese travestita da articolo, ti senti preso in giro. E hai ragione.

Ammettiamolo: il native advertising è manipolazione. È progettato specificamente per aggirare le tue difese psicologiche contro la pubblicità.

È etico? Dipende.

Se usi la manipolazione per vendere qualcosa che migliora davvero la vita della persona, io dico di sì.

Se la usi per vendere fumo, truffare, o piazzare SCAM che non funzionano, allora sei semplicemente un truffatore.

Ma tecnicamente, funziona in entrambi i casi.

E questa è la bellezza e al tempo stesso il problema del native advertising.

I principali formati di Native Advertising

Ci sono almeno 6 tipi di formati di Native Advertising, ognuno con caratteristiche, costi, e use case diversi.

La maggior parte degli imprenditori conosce solo “l’articolo sponsorizzato sul giornale” e pensa che quello sia tutto il native advertising. Sbagliato.

Formato 1: In-Feed Social Ads

Questi li vedi tutti i giorni anche se non te ne rendi conto.

Post sponsorizzati su Facebook, Instagram, LinkedIn, TikTok che appaiono nel feed insieme ai post organici. Stesso formato. Stessa grafica. Stessa user experience. L’unica differenza è la scritta “Sponsorizzato” sotto il nome della pagina, che il 90% della gente ignora o non nota nemmeno.

Quando usarli: Prodotti B2C con appeal visivo, target 18-55 anni attivi sui social, budget minimo €3.000/mese per avere volume di test significativo.

Quando NON usarli: Prodotti B2B complessi che richiedono educazione lunga, target 60+ che usa poco i social, budget sotto €1.000/mese perché non hai volume per testare un cazzo.

Esempio:

Un brand di scarpe running lancia un nuovo modello. Crea un video native per Instagram che sembra un video normale di un runner che prova le scarpe. Non c’è logo gigante. Non c’è “COMPRA ORA”. Solo il runner che parla delle scarpe in modo naturale. Alla fine, CTA soft: “Scopri di più” che porta a landing page prodotto.

Risultato: CTR 3.2% contro lo 0.5% di un banner classico.

Perché funziona? Non interrompe lo scroll. Sembra contenuto organico. La gente ci clicca perché è interessata, non perché è bombardata.

Formato 2: sponsored content su publisher

Gli articoli sponsorizzati su testate giornalistiche, blog di settore, magazine online.

Questo è il formato che tutti conoscono. Ed è quello dove si sprecano più soldi in Italia.

Articoli a pagamento pubblicati su testate terze con tag “Contenuto sponsorizzato”, “Branded content”, o “Pubblicità”. Appaiono nella sezione normale del sito, sembrano articoli editoriali regolari.

Quando usarli: Business B2B con cicli di vendita lunghi, prodotti che richiedono educazione perché sono innovativi o complessi, authority building e credibilità, target professionale con reddito medio-alto.

Quando NON usarli: Budget sotto €5.000 per articolo perché i publisher seri costano, aspettative di vendita diretta immediata perché non funziona così, prodotti commodity dove il prezzo è l’unico fattore.

Esempio:

Un’azienda di software gestionale per studi legali pubblica un articolo su Altalex (portale per avvocati) dal titolo “Come gestire 200+ fascicoli senza impazzire: la checklist dell’avvocato efficiente”.

L’articolo è genuinamente utile. Dà consigli pratici. Non menziona il software fino alla fine, dove c’è un paragrafo: “Strumenti che possono aiutarti” con un accenno al prodotto.

Costo: €8.000-12.000 per articolo su Altalex.

Risultato: 45 demo request in 30 giorni. 7 contratti chiusi. Valore medio contratto: €3.500/anno. ROI: 2.2x sul primo anno. Considerando che i clienti restano mediamente 3+ anni, ROI reale 6-7x.

Perché funziona? Raggiunge target iper-qualificato (avvocati) su una piattaforma che già frequentano e di cui si fidano. Il contenuto dà valore reale. Il brand si posiziona come esperto, non come venditore.

Perché spesso NON funziona:

Perché l’imprenditore medio italiano scrive un articolo che è un brochure mascherato. “La nostra azienda è leader da 30 anni. I nostri prodotti sono i migliori. Abbiamo vinto 47 premi. Compra ora.”

Questo non è native advertising. È pubblicità vecchio stampo con la scritta “contenuto sponsorizzato” sopra. La gente clicca, legge 3 righe, capisce che è una marchetta, chiude, e hai buttato €10.000.

Formato 3: Contenuti consigliati

I famosi box “Contenuti consigliati” o “Ti potrebbe interessare” che vedi in fondo agli articoli dei giornali.

Quelli con titoli tipo “I medici odiano questo trucco”, “Ha perso 30kg in 60 giorni con questo metodo”, “Dopo 40 anni hanno scoperto cosa c’era dentro”. Sì, quelli. È tecnicamente native advertising.

Piattaforme come Taboola, Outbrain, MGID distribuiscono il tuo contenuto sulle pagine di migliaia di siti, o publisher. Tu crei una landing page o un articolo. Loro lo mettono nei box dei contenuti consigliati. Paghi per click.

Quando usarli: Lead generation B2C di massa, settori come salute, finance, assicurazioni, corsi online, investimenti. Budget da €2.000/mese. Obiettivo: volume di lead, non qualità premium.

Quando NON usarli: Brand premium/luxury perché il contesto è spesso trash, B2B professionale serio perché nessun CFO clicca su questi widget, se ti aspetti lead qualità LinkedIn.

Esempio pratico:

Un corso online di trading pubblica un articolo “Come sono passato da €1.500/mese a €5.000/mese lavorando da casa” su Taboola.

L’articolo è lungo, racconta una storia, educa sul trading, alla fine c’è un form per iscriversi a un webinar gratuito.

Costo: €0.30-0.70 per click. CTR: 0.4% (sembra basso ma su volumi enormi). Conversion a lead: 8-12%. Costo per lead: €3-8. Poi il webinar converte al 5-10% in vendite del corso (€997).

Funziona? Sì, se hai un funnel ben oliato e sai che stai giocando sul volume, non sulla qualità. No, se ti aspetti lead stile “manager di multinazionale interessato a consulenza strategica”.

Il target di Taboola/Outbrain è: casalinghe, pensionati, impiegati che scrollano articoli random nel tempo libero. Se il tuo prodotto è per loro, perfetto. Se no, stai buttando soldi.

Formato 4: Search Native Ads

Google Discovery è il feed “Per te” che vedi nell’app Google su Android o nella homepage di Google su Chrome. Sembra un feed di notizie personalizzate. In realtà ci sono anche contenuti sponsorizzati native dentro.

Annunci che appaiono nel feed Discovery di Google, sembrano raccomandazioni editoriali organiche.

Quando usarli: Hai un blog con contenuti di qualità, vuoi traffico su articoli/guide/contenuti evergreen, budget da €1.500/mese, obiettivo è traffico qualificato da interesse specifico.

Quando NON usarli: Prodotto transazionale diretto perché meglio Google Search Ads, budget sotto €1.000/mese, non hai contenuto di qualità da promuovere.

Esempio pratico:

Un’azienda di integratori promuove un articolo “Guida completa agli integratori per la massa muscolare” tramite Google Discovery. L’articolo è genuinamente completo, 3.000 parole, ben scritto, utile. Alla fine, CTA per scaricare una guida PDF gratuita in cambio di email.

Costo: €0.15-0.40 per click. Conversion a lead: 15-25% (alto perché chi legge 3.000 parole è interessato). Funnel: Email sequence automatizzata che vende gli integratori.

Formato 5: Contenuti sponsorizzati da influencer

Creator, influencer, YouTuber, TikToker che parlano del tuo prodotto in modo naturale nei loro contenuti.

Video, post, stories dove l’influencer integra il tuo prodotto nel suo contenuto normale. Non è il classico post “LINK IN BIO! CODICE SCONTO!”. È il creator che usa il prodotto nel video come se fosse parte naturale della storia.

Quando usarli: Target giovane 18-40, prodotti lifestyle, tech, beauty, fitness, food. Budget: €2.000-50.000 per creator dipende dalla size. Obiettivo: awareness, brand perception, consideration.

Quando NON usarli: B2B professionale, target 50+, aspettative di ROI immediato transazionale misurabile perché è difficile attribuire vendite.

Esempio pratico:

Un brand di auricolari sponsorizza uno YouTuber italiano con 200k iscritti. Lo YouTuber fa un video “Setup scrivania perfetto per lavorare da casa” dove mostra tutto il suo setup, inclusi gli auricolari sponsorizzati. Li usa naturalmente nel video. Spiega perché gli piacciono. Non è un infomercial. Disclosure: “Questo video è sponsorizzato da X” nei primi 10 secondi.

Costo: €5.000 per il video. Views: 180.000 in 30 giorni. Risultato diretto: impossibile da tracciare con precisione. Ma brand lift survey mostra +35% di brand awareness nel target 25-40.

Funziona? Sì, per costruire brand. No, se vuoi tracciare ogni vendita al centesimo.

Formato 6: Native Display Ads

Banner pubblicitari che però sono progettati per sembrare nativi del sito dove appaiono. Banner che prendono lo stile grafico, i font, i colori del sito dove appaiono invece di essere evidentemente “esterni”.

Quando usarli: Retargeting, brand con identità visiva forte, budget limitato ma vuoi testare native.

Quando NON usarli: Se puoi permetterti formati native più efficaci, cold audience perché funziona meglio su retargeting.

Onestamente? Questo formato è il meno efficace dei 6. È “native” solo di nome. La gente lo riconosce come advertising comunque. Se hai budget, meglio investire negli altri formati.

Native Advertising vs Content Marketing: La Confusione Che Costa Soldi

Questa è la confusione più grande tra gli imprenditori italiani.

“Ma qual è la differenza tra native advertising e content marketing?”

Vediamolo insieme, perché confonderli ti costa molti soldi.

Con il content marketing tu crei contenuto di valore (articoli, video, guide) sul TUO blog/canale. Lo distribuisci organicamente attraverso SEO, social, email.

L’obiettivo è attrarre traffico organico e costruire autorità nel tempo.

Investimento: Tempo + costo creazione contenuto.

Budget: €0-3.000/mese dipende se fai tutto in-house o meno.

Risultati: Arrivano dopo 3-6 mesi. Ma una volta che si posiziona, il contenuto continua a portare traffico per anni senza costi aggiuntivi.

Esempio: Scrivi “Guida completa alla gestione del food cost per ristoranti” sul tuo blog, ottimizzi SEO, dopo 4 mesi si posiziona, porta 500 visite/mese per i prossimi 3 anni. Costo totale: €500 per la scrittura e basta.

Con il Native Advertising tu crei contenuto (o lo fai scrivere a un copywriter) e PAGHI per distribuirlo su piattaforme/publisher terzi dove verrà visto immediatamente da migliaia di persone.

Investimento: Costo creazione contenuto + costo distribuzione. Budget: €3.000-20.000/mese.

Risultati: Immediati. Appena paghi, il traffico arriva. Appena smetti di pagare, il traffico si ferma.

Esempio: Stesso articolo food cost, lo pubblichi come sponsored content su “Ristorazione Italiana Magazine“. Appare davanti a 50.000 ristoratori immediatamente. Costo: €8.000. Traffico: finché paghi.

Native advertising o content marketing: quale scegliere?

Dipende da 3 fattori: budget disponibile, urgenza dei risultati, sostenibilità nel lungo termine.

Se hai meno di €3.000/mese per il marketing: content marketing.

Se hai €5.000+/mese: native advertising o meglio, entrambi.

Hai bisogno di risultati nei prossimi 30 giorni? Native advertising. Puoi aspettare 6-12 mesi? Content marketing.

Il content marketing costruisce asset che crescono nel tempo. Un articolo ben posizionato sui motori di ricerca porta traffico per anni. Il native advertising è un rubinetto: apri, arriva traffico. Chiudi, si ferma tutto.

La strategia intelligente è usare il content marketing per costruire le fondamenta e il native advertising per amplificare e accelerare.

Non è “o questo o quello”. È “questo E quello in momenti diversi con obiettivi diversi”.

Aspetto Content Marketing Native Advertising
Dove pubblichi Tuo blog, tue proprietà digitali Piattaforme/publisher terzi a pagamento
Distribuzione Organica (SEO, social, email) A pagamento (sponsored, ads)
Costo iniziale Basso (€500-2.000 per pezzo) Alto (€5.000-20.000 per campagna)
Costo ongoing Quasi zero (solo manutenzione) Continuo (devi pagare sempre)
Tempo per risultati 3-6 mesi Immediato (giorni)
Durata risultati Anni (compounding effect) Finché paghi
Scalabilità Lenta ma sostenibile Veloce ma costosa
Benefici SEO Alti (migliori ranking) Bassi o zero
Meglio per Authority, SEO, crescita organica long-term Awareness veloce, lead generation, amplificazione
Budget minimo €1.000-3.000/mese €5.000-10.000/mese

La maggior parte delle PMI italiane dovrebbe fare content marketing PRIMA di pensare al native advertising.

Perché? Perché se non hai ancora contenuto che funziona organicamente, come fai a sapere cosa amplificare con il native?

Il native è amplificazione. Se amplifichi un contenuto mediocre, ottieni risultati mediocri moltiplicati per il budget speso.

Invece la sequenza corretta è:

  • crea contenuto attraverso content marketing;
  • vedi cosa funziona organicamente guardando traffico, conversioni, engagement;
  • Prendi quel contenuto che funziona e amplificalo con il native advertising.

La sequenza sbagliata che fanno tutti invece è scrivo un articolo a caso, lo pubblico su Corriere.it per €15.000, mi aspetto miracoli, non succede niente, concludo che “il native non funziona”.

Native Advertising vs Display Ads: perché uno è vivo e l’altro morto

Il Display advertising è uguale ai banner classici che vedi da 25 anni su internet. Quelli lampeggianti. Quelli con “CLICCA QUI!”. Quelli con il countdown “OFFERTA FINISCE TRA 00:03:47!”. Quelli con GIF animate anni ’90.

Sai qual è il problema dei display ads? Nessuno ci clicca.

Il CTR medio dei display ads nel 2024 è 0.05-0.1%. Sì, hai letto bene. Su 1.000 persone che vedono il banner, 0.5-1 ci cliccano. E di quelle, la metà sono click accidentali.

Come dicevamo prima questo fenomeno si chiama “banner blindness” ed è documentato da decine di studi di eye-tracking.

Il cervello umano ha letteralmente imparato a NON vedere i banner. Gli occhi li saltano. La mente li filtra. Sono diventati invisibili.

Con il native advertising invece hai numeri da 5 a 30 volte superiore ai display ads tradizionali.

Perché questa differenza enorme? Perché il native advertising non attiva i filtri anti-pubblicità del cervello. Sembra contenuto normale. Il cervello ci presta attenzione. Elabora il messaggio. E poi decide se è interessante o no. Il display ad tradizionale viene filtrato PRIMA ancora di essere elaborato.

Ma allora perché esistono ancora i display ads?

Principalmente per 3 ragioni: retargeting dove funzionano ancora discretamente, costo bassissimo (CPM display ads: €0.50-3 contro CPM native ads: €5-20), e inerzia organizzativa perché molte aziende li fanno perché “li hanno sempre fatti”.

Ma funzionano? No, non più.

Immagina di avere €10.000 di budget per promuovere un nuovo software gestionale per PMI.

Opzione A con Display Ads: Banner su siti generici. CPM: €2. Impression: 5.000.000. CTR: 0.08%. Click: 4.000. Conversion rate click verso lead: 2%. Lead: 80. Costo per lead: €125.

Opzione B con Native Advertising: Contenuto sponsorizzato sul Sole 24 Ore. Impression totali: 800.000 (molto meno). CTR medio: 1.2%. Click: 9.600. Conversion rate: 5% più alta perché audience qualificata. Lead: 480. Costo per lead: €20.8.

Stessi €10.000. Risultato: Display porta 80 lead a €125. Native porta 480 lead a €21. Il native porta 6x i lead a 1/6 del costo.

E c’è di più.

La qualità dei lead native è tipicamente molto superiore. 

Perché? Perché chi clicca su un native ad ha già speso tempo a leggere/guardare il contenuto. È più educato. Più qualificato. Più interessato. Chi clicca su un display ad ha spesso cliccato per sbaglio o per curiosità superficiale.

La verità finale: i display ads tradizionali sono morti per il 90% dei casi. Le uniche eccezioni sono retargeting dove funzionano ancora decentemente, e awareness massiva a bassissimo costo dove accetti CTR da fame. Per tutto il resto il Native advertising vince a mani basse.

Costa di più per impression, ma converte così tanto meglio che il costo per risultato concreto è inferiore.

5 Errori del Native Advertising

Ora che hai capito cos’è il native e i vari formati, parliamo di come NON sprecarlo. Perché la maggior parte delle PMI italiane fa questi errori sistematicamente.

Errore numero 1: contenuto palesemente promozionale

Questo è l’errore fatale. Paghi €10.000 per pubblicare un articolo su Corriere.it o Sole 24 Ore.

L’articolo è: “XYZ Srl è leader nel settore da 30 anni. I nostri prodotti sono i migliori sul mercato. Abbiamo vinto 47 premi internazionali. I nostri clienti ci amano. Contattaci per un preventivo gratuito.”

Questo non è native advertising. È una brochure aziendale travestita da articolo.

La gente clicca perché il titolo sembrava interessante. Legge 3 righe. Capisce che è pubblicità in prosa. Chiude. Bounce rate 95%. Hai buttato €10.000.

Come farlo bene? L’articolo deve essere DAVVERO utile. Deve dare valore. Deve insegnare qualcosa, risolvere un problema, rispondere a domande. Il brand viene menzionato alla fine, in modo naturale, come una delle possibili soluzioni al problema discusso.

Esempio di titolo sbagliato: “Perché XYZ è il miglior software gestionale per ristoranti”.

Esempio di titolo giusto: “Come ridurre gli sprechi in cucina del 30%: la checklist operativa”. Il secondo titolo offre valore. Il primo urla “pubblicità”.

Errore numero 2: publisher sbagliato

Scegli il publisher “perché è famoso” senza chiederti se la sua audience è il tuo target.

Oppure peggio: cadi nel tranello di “publisher” anonimi che ti promettono “100.000 visualizzazioni garantite” a €2.000.

Se vendi software B2B per aziende manifatturiere non puoi pubblicaare su Vanity Fair solo perché “è una testata importante”.

Chiedi al publisher demografia audience (età, professione, reddito, interessi), certificazioni traffico (Audiweb, Comscore), case study di clienti simili a te. Se non possono darti questi dati in modo trasparente, scappa.

Errore numero 3: nessun Funnel previsto

Fai il native. La gente clicca. Arriva sul tuo sito. E poi? Vanno in Homepage. Nessuna offerta. Nessun next step. Nessun modo di catturare il contatto.

La persona guarda 3 secondi il sito, non capisce cosa fare, esce.

Hai pagato per portare traffico che se ne va immediatamente.

PRIMA di fare native advertising, devi avere una landing page specifica per quella campagna, con un’offerta chiara per catturare i dati di contatti e un form ottimizzato con 3-4 campi, non 12 domande.

Il native porta il traffico. Il funnel trasforma il traffico in clienti. Senza funnel, il native è come riempire un secchio bucato. Buttate soldi che escono dall’altra parte.

Errore numero 4: budget insufficiente per testare

Investi €1.500 in una campagna native non funziona. Hai solo fatto un test troppo piccolo per avere dati significativi.

Budget minimi realistici: Sponsored content publisher nazionale €5.000-10.000 per 1-2 articoli. Social native ads Facebook/Instagram/LinkedIn €3.000-5.000/mese. Content discovery Taboola €2.000-3.000 per test. YouTube/Influencer €5.000-15.000 per creator.

Sotto queste soglie, non hai volume sufficiente per capire cosa funziona.

Errore numero cinque: non misurare i dati

Il publisher ti manda un bellissimo report PDF e dice

“Il tuo articolo ha avuto 87.000 visualizzazioni! Tempo medio di lettura 3:42! 2.500 engagement! Successo!”

Tu sei contentissimo. Poi vai a vedere Google Analytics. 350 click al tuo sito. 12 form compilati. 0 vendite.

Il problema è che hai misurato metriche di vanità (visualizzazioni, tempo lettura) invece di metriche di vendita (click, lead, clienti, revenue).

Le uniche metriche che contano sono:

  • quanti sono arrivati sul tuo sito,
  • quanti hanno compilato form o richiesto demo o scaricato risorsa,
  • quanti sono diventati clienti paganti,
  • quanto hanno speso.

Tutto il resto come visualizzazioni, engagement, tempo lettura è fuffa se non si traduce in risultati concreti.

Traccia tutto. Misura dal clic alla vendita.

Quando il Native Advertising ha senso

Non tutte le aziende dovrebbero fare native advertising. Ci sono prerequisiti chiari.

Ha senso fare native advertising se fatturi almeno €500k-1M all’anno. Sotto questa soglia hai quasi certamente priorità più urgenti:

  • validare che l’offerta funzioni,
  • ottimizzare il funnel di base,
  • fare SEO e marketing a risposta diretta,
  • sistemare il processo di vendita.

Il native è amplificazione. Se non hai le fondamenta solide, stai amplificando il niente.

Ha senso se hai già un’offerta che converte. Se le tue Facebook Ads hanno già un buon tasso di conversione, allora ha senso investire in native per avere una diversa fonte di traffico.

Quando non ha senso fare native advertising

Il Native advertising non è indicato quando hai un budget per il marketing sotto i €3.000/mese. Sotto questa cifra, concentrati su SEO e content marketing organico, social organico, email marketing, referral e passaparola. Attività che richiedono tempo più che soldi.

Non hai ancora product-market fit. Se stai ancora capendo cosa vendere, a chi, come prezzarlo, il native è prematuro. Prima valida il prodotto con metodi low-cost. Poi scala.

Se il tuo target è “neurochirurghi in Lombardia” non troverai publisher rilevanti con quella audience. Meglio usare LinkedIn o provare con l’outreach personalizzato.

Il native è utile nel top-of-funnel e middle-of-funnel. Non è “clicca e compra subito”. Se vuoi conversioni immediate, Google Ads o Facebook Ads funzionano meglio.

La regola generale è questa:

il native advertising è per aziende che hanno già superato la fase iniziale di validazione e vogliono accelerare la crescita investendo cash per velocizzare awareness e lead generation. 

Native Advertising e prossimi passi

Quindi per fare Native Advertising:

  • Devi capire quale formato native ha senso per il tuo business.
  • Devi scegliere i partner/publisher giusti non i più famosi, i più giusti.
  • Devi creare contenuto che è davvero utile, non marchette travestite da notizie.
  • Devi avere un funnel dietro che cattura e converte il traffico.
  • Devi misurare tutto ossessivamente e ottimizzare basandoti sui dati.
  • Devi avere budget sufficiente per testare seriamente.

Puoi farlo da solo? Tecnicamente sì. Praticamente ci vorranno mesi di errori, migliaia di euro bruciati in test falliti, e molta frustrazione prima di capire cosa funziona.

Oppure puoi lavorare con qualcuno che l’ha già fatto decine di volte, sa dove guardare, cosa testare, come ottimizzare, e può portarti a risultati concreti in settimane invece che mesi.

La scelta è tua. Ma non illuderti perché leggere un articolo non ti rende esperto di native advertising. Ti ha dato le basi. Ti ha fatto capire cosa è possibile. Ti ha mostrato gli errori da evitare.

Ma tra sapere teoricamente e implementare praticamente ottenendo risultati, c’è un abisso. E quell’abisso si chiama esperienza.

Il native advertising funziona. I numeri lo dimostrano. Il mercato cresce. I brand lo usano sempre di più.

Ma non è la soluzione magica che risolve tutti i problemi di marketing. È uno strumento. Potente, sì. Ma pur sempre uno strumento.

E come tutti gli strumenti, funziona solo se lo usi nel momento giusto, lo usi nel modo giusto, lo usi per gli obiettivi giusti.

Se non hai ancora validato l’offerta, il native non ti salverà. Se non hai funnel che converte, il native non ti salverà. Se non hai budget adeguato, il native non ti salverà.

Ma se hai un business solido, un’offerta che funziona, un funnel che converte, e vuoi accelerare la crescita raggiungendo velocemente migliaia di persone nel tuo target, allora il native advertising può essere il moltiplicatore che ti serve.

L’importante è farlo con la testa, non con la speranza.

Fine.

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Basato su 33 recensioni

Giorgio Gioacchini
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Lanciati Online
Stefano è un ottimo copywriter. Mi ha aiutato a realizzare i copy per il lancio di un nuovo prodotto lavorando in maniera precisa, puntuale e soprattuto con grande pazienza e cortesia: tutte cose non affatto scontate e che hanno reso la collaborazione piacevole e soddisfacente
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Già dai primi lavori ho notato subito una differenza importante rispetto a chi mi forniva precedentemente i copy perché le mie ads e landing convertono quasi il doppio.
Paolo Patelli
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Sono molto contento di collaborare con Stefano, è stato davvero una fortuna trovarlo. Lo consiglio vivamente se volete stravolgere la vostra comunicazione aziendale.
Davide Rocca
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In passato ho già provato a collaborare con altre agenzie che si occupano di marketing e Copywriting, ma non ho mai trovato la stessa professionalità che ho ricevuto da Stefano.
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